Le "Confessiones" sono in 13 libri e sono state composte tra il 397 ed il 398. Per Agostino il titolo ha un valore religioso: egli confessa la sua fede (confessio fidei) in un dio buono ed onnipotente, che solo è degno di lode (confessio laudis), da parte dell'uomo peccatore (confessio peccatorum). Non abbiamo un'autobiografia nel senso comune del termine, ma abbiamo la testimonianza di una inquieta ricerca della felicità e della verità che passa dal manicheismo, alla neoaccademia, al neoplatonismo, arrivando al cristianesimo. Nel libro I, Agostino rievoca i suoi primi 15 anni, dai giochi della fanciullezza agli studi, ad un certo punto ci racconta dei pianti versati sull'Eneide a causa di Didone e l'odio per la lingua greca. Nel II libro, rievoca l'inquieta adolescienza a Tagaste e Madauro, episodio emblematico è quello del furto delle pere: Agostino si rende conto di aver rubato per il gusto di aver fatto qualcosa di proibito. Il III libro parla del periodo cartaginese, dai 17 ai 19 anni, rievocando gli studi. Gli amori, le avventure goliardiche, la lettura dell'hortentius ciceroniano e l'incontro con il manicheismo. Il IV libro parla dei suoi primi anni di insegnamento a Tagasta e Cartagine, il V racconta il suo recarsi a Roma e Milano e la sua fase scettica (nuova accademia). Nel VI libro si sentono le prediche di Ambrogio e l'acuizione della sua crisi spirituale. Il VII ci parla del suo accostamento al neoplatonismo e poi della sua adesione al Cristianesimo. Nell'VIII abbiamo il racconto dei colloqui a Cassiciacum con i suoi amici e familiari più stretti; Agostino sente una voce che gli diceva: "Tolle lege" prendi la legge, si trova davanti una bibbia ed aprendola il segno è alla conversione di San Paolo. Il IX libro parla del suo battesimo, del soggiorno ad Ostia e la morte della mamma. Il libro X è una riflessione sul valore della memoria "da quod iubes et iube quo vis" (concedi ciò che comandi e comanda ciò che vuoi). L'XI libro si sofferma sul concetto della creazione e su quello del tempo. Il XII è un'esegesi della genesi, ed Agostino sostiene che ogni parola può avere più significati. Nel XIII libro Agostino sostiene che nell'uomo sarebbe rispecchiata la trinità, in quanto l'uomo è, conosce e vuole (esse, nosse et velle). Si conclude con l'invocazione alla pace nel sabato senza tramonto, della vita eterna.
Agostino ha voluto meditare sulla presenza misteriosa di dio (convresione dell'innominato di Manzoni) che egli stesso ha sperimentato nella propria vita, nei libri dall'I al IX, in sè stesso, nel libro X, e nel mondo, nei libri dall'XI al XIII.
Lo stile si caratterizza per questa singolare commistione tra linguaggio biblico e lingua letteraria: ne risultano pagnine ricche di figure retoriche tra cui spiccano le anafore, le enumerazioni, gli asindeti, gli ossimori. Agostino soteneva: "pur amando la felicità temevo di cercala dov'era; eppure fuggendola la cercavo", "amans beatam vitam timebam illam in sede sua et ab ea fugiens quaerebam eam". Notevole è, nelle confessiones, la capacità di introspezione, resa spesso con l'accumulo di esclamazioni ed inteerogazioni. Notevole anche l'alternanza dei tempi dal lento al patetico, dall'animato al silenzioso: ampi sono i giochi ritmici e fonici. Troviamo espressioni bizzarre, emblematiche del suo modo di scrivere (la mano della mia bocca, le orecchie del mio cuore).
Nell 410 i Visigoti di Alarico saccheggiarono Roma. Questo fatto rinfocolò le polemiche anticristiane degli ambienti pagani che attribuivano al cristianesimo la responsabilità della decadenza dell'impero romano. Agostino, quindi, scrisse i 22 libri del "de civitate Dei" tra il 412 ed il 427. Dividiamo l'opera in due parti: i libri dall'I al X sono apologetici, di difesa dalle accuse pagane, quelli dall'XI al XXII rappresentano la parte costruttiva dell'opera, in quanto Agostino parla delle due città, quella di Dio e quella terrena. L'idea centrale è che gli uomini di ogni epoca e cultura fanno parte di due diversi e opposti tipi di città: quella di Dio e quella terrena. Gli abitanti della prima obbediscono alla volontà di Dio, gli abitanti della seconda pongono ogni loro egoistica speranza nella vita terrena: una distinzione del genere è ovviamente spirituale. Agostino non identifica le due città con Chiesa e Stato, infatti sostiene che anche nella chiesa esistono le due città, come nello stato.
Per Agostino l'importante è che il cristiano applichi una scala di valori per la quale ponga Dio al primo posto, mentre le opere dell'uomo su questa terra, pur utili e necessarie, sono tuttavia impalcature provvisorie. Le due città superano ogni barriera politica, raziale e linguistica. Contro ogni nazionalismo ed in polemica contro le pretese universalistiche dell'impero romano, Agostino, insiste sull'effettivo universalismo della città di Dio. Il XIV libro è dedicato alla pace, presentata come un valore, ma non tale da sacrificarlo alla giustizia, perché la pace senza giustizia è sopraffazione. C'è quindi il rifiuto del nazionalismo romano, secondo cui roma avrebbe il compito di reggere un "imperium sine fine" e "de pascere subiectis et debellare superbos": l'insistenza ricca, la libido dominante, la sete sfrenata di potere, propria dei romani e la svalutazione della virtus attribuita ai romani antichi dalla tradizione, si intendono in quanto Agostino reagisce alle accuse anticristiane che hanno sollecitato l'opera, opponendovi l'idea-base che tutto ciò che non mira ai valori eterni è caduco. Il libro XIII è importante, perché dedicato al tema della morte, vista come un male conseguente al peccato, ma che porta a Dio, se accettata come atto di obbedienza alla sua volontà. Agostino trae il tema delle due città dalla meditazione della scrittura, soprattutto dai salmi. Questa opposizione, però, non è da intendere come disinteresse o ostilità verso lo stato da parte di Agostino, perché secondo l'autore il cristiano deve essere anche "buon cittadino".
Il "de civitate dei" è rivolto ad un pubblico dotto. Perciò i periodi sono complessi, ricchi di subordinate. Da notare è la ricerca della "concinnitas", cioè dell'espressione simmetricamente armoniosa, l'uso di figure retoriche ricercate (ironia, riferimenti e allusioni a scrittori profani, da Apuleio a Cicerone, a Livio, Sallustio, Varrone e Virgilio). L'andamento dell'opera è più solenne, lento, meno ricco di giochi di parole, antitesi, parallelismi, di quello più vivace delle confessioni, c'è meno autobiografica, il vocabolario è più colto, lo stile più sorvegliato.
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