giovedì 16 gennaio 2020

"Hannah Arendt e Martin Heidegger" di Livia di Vona

Hannah Arendt e Martin Heidegger: l’intenso legame sentimentale tra i più grandi pensatori del ‘900. 



Hannah, la riconciliazione è qualcosa che nasconde in sé una ricchezza che noi dobbiamo diffondere fino alla svolta in cui il mondo oltrepassa lo spirito della vendetta. Così scrive Martin Heidegger da Messkirch ad Hannah Arendt, il 6 maggio del 1950. Ci sono voluti oltre vent’anni di silenzio perché il filo spezzato di quell’antico affetto si riannodasse su iniziativa di Hannah stessa. Il carteggio epistolare fra i due amanti, conosciutisi all’università di Marburg nel 1925, quando un trentaseienne professore, sposato e con due figli, restò incantato dall’intelligenza di un’allieva diciannovenne, molto restituisce di quello che fu una relazione nata sul canovaccio di un amore irrealizzabile, tanto distanti apparivano fra loro.
Tuttavia le lettere ci mostrano come sia accaduto per i due amanti d’oltrepassare questo impossibile, vivendosi un affetto diventato storia nella Storia, la cui traccia è riuscita a sopravvivere alla Storia stessa e alle sue colpe.
E forse è proprio questo ad aver salvato un rapporto tra due intelligenze travagliate dal finire nel pattume delle miserie umane e resta intatta per il lettore la sfida di oltrepassare la freddezza del dato di fatto che fa di Heidegger soltanto un filosofo sostenitore del regime nazista e di Hannah Arendt una filosofa ebrea in fuga. Oltre il mero dato, infatti, diventa possibile scoprire che due come loro, dicevamo distanti anni luce da ogni punto di vista, siano riusciti ad accogliersi reciprocamente.

Il carteggio: un viaggio nell’affettività di Hannah Arendt e Martin Heidegger

La prima parte del carteggio, datato 1925/1932, è un viaggio nella sfera dell’affettività di un uomo e una donna che si intreccia inevitabilmente con la speculazione filosofica. Un viaggio nell’intimità con tutte le conseguenze del caso per chi legge e cioè scoprirsi a spiare in punta di piedi, come intrusi non invitati, quella condivisione di pudori che appare così lontano da un tempo che sembra aver dimenticato la bellezza di un amore vissuto come attesa dell’altro.
Quando la bufera sibila intorno alla baita, trascorro una pausa di tranquillità sognando l’immagine di una fanciulla che con l’impermeabile, il cappello calcato fin sopra i grandi occhi quieti, entrò per la prima volta nel mio studio e, timida e riservata, diede una breve risposta a tutte le domande ed è allora che riporto l’immagine agli ultimi giorni del semestre e solo allora capisco che la vita è storia.
Scrive Heidegger alla diciannovenne Hannah il 1 maggio 1925:
Carissima! L’amore sarebbe ancora grande fede, che sorge con esso nell’anima, se non gli rimanesse che questo da tenere in serbo, da aspettare e custodire? Questo aspettare l’amato è la cosa più meravigliosa perché in esso l’amato rappresenta proprio il “presente”. Con questa fede, lascia che io abiti il luogo più intimo e puro della tua anima.

E ancora in una lettera di pochi giorni dopo:

E cosa possiamo fare, se non unicamente aprirci l’un l’altro e lasciar essere ciò che è. (…) Sereni di essere ciò che siamo. E tuttavia ciascuno vorrebbe “dire” all’altro e aprirsi; ma potremmo dire soltanto che il mondo non è più il mio e il tuo ma è diventato il “nostro” e che quanto facciamo e cerchiamo di raggiungere non appartiene a me o a te, ma a noi.
(…)
Ti ringrazio per le tue lettere perché mi hai accolto nel tuo amore mia carissima. Sai che questa è la cosa più difficile che un uomo debba sopportare? Per tutto il resto ci sono vie, aiuti, confini e comprensione soltanto qui tutto significa: essere innamorato= essere sospinto all’esistenza più autentica.

L’intimità secondo Heidegger

Trapela con una spietata chiarezza cosa sia intimità per Heidegger: viversi per ciò che si è, senza quell’ansia di caricare la relazione di aspettative di perfezione che inquinano la promessa di un mutuo donarsi. E’ tutto già perfetto, perché quel noi ha come perimetro e sostanza una sola immagine: quella dell’amata per ciò che già è e non per ciò che ci si aspetta che sia.
Molto spesso in queste lettere Heidegger ripete una frase attribuita a Sant’Agostino: Voglio che tu sia ciò che sei. Non di più, non di meno e una profonda gratitudine le verga: qualcosa di straordinario sta accadendo e cioè la possibilità, che sembra avere del miracoloso, di stare accanto all’amata mentre si dischiude, con le incertezze della giovane età, alla vita.
Non è soltanto un sentimento, è una fede incrollabile che affonda le radici non in un ideale, ma nella solidità di ciò che lei è già e di tutto quello che è la sua storia. Soltanto questa fede, promette Heidegger, resiste alle intemperie del destino, che non mancheranno. Il perché della felicità è, dunque, questo: Che l’amore c’è, che può esserci. Cioè che ha la forza invincibile di un’esperienza, senza limitarsi ad essere mera promessa.

L’amore tra Hannah Arendt e Martin Heidegger e l’incalzare della Storia

Non è facile per Hannah amare il suo professore; avere a che fare con la sua solitudine creatrice, che impone lunghe assenze per dedicarsi anima e corpo alla speculazione. Esperienza grandiosa e infame allo stesso tempo interrompere i rapporti in questi momenti, come lui stesso ammette scusandosi nelle lettere. Ma Hannah Arendt ha la sua vita da vivere e l’incalzare degli eventi, nella Germania nazista, la porterà a prendere commiato dal suo professore, con il quale i rapporti erano rimasti anche dopo il primo matrimonio di lei, fallimentare, con Günther Anders, mentre lui aveva proseguito con la sua vita di marito e padre di due figli.
L’ultima lettera del primo periodo data nell’inverno del 1932/33 quando Hannah chiede ragione delle “dicerie” sull’antisemitismo di Martin:
Le dicerie che ti inquietano sono calunnie, del tutto simili ad altre esperienze che mi sono toccate negli ultimi anni. Che difficilmente io abbia potuto escludere gli ebrei dagli inviti di istituto risulta dalla circostanza che negli ultimi quattro semestri non ho avuto nessun invito in istituto. Che poi io non saluti gli ebrei è una calunnia così maligna che me la ricorderò per il futuro.

Le accuse di antisemitismo ad Heidegger

Ci si immagina tutta l’inquietudine che ha portato la Arendt a chiedere lumi; trapela il sentore di una ferita aperta dal si dice, dal raccogliere voci sparse che stridono con quello che lei sa di Martin. Il carteggio riprende soltanto nel 1950. Hannah ormai vive e lavora in America ed è lei a mettersi in contatto per prima con Heidegger, il quale comincia la lettera che segna la ripresa dei rapporti, con queste parole:
Cara Hannah, sono lieto di avere l’occasione di proseguire adesso, in un periodo più tardo della vita, il nostro iniziale incontro come qualcosa che rimane.” E quello che rimane, scriverà più tardi Hannah in una lettera del 1967, “è dove si può dire: inizio e fine sono sempre ancora la stessa cosa.
Non se lo scriveranno mai esplicitamente cosa è rimasto di quel primo incontro. Sappiamo soltanto, attraverso le considerazioni filosofiche nelle lettere, che non di relazione si è trattato, ma di una vera e propria appartenenza.
Nel silenzio di ciò che non è scritto, azzardiamo che forse la memoria di quell’antico pudore, di quella grazia nell’essersi reciprocamente donati offrendosi l’un l’altro senza riserve, deve aver lasciato traccia come un’impronta pesante scolpita nella roccia degli eventi se è riuscita a resistere a dubbi, parole non dette e macerie di un odio che ha fatto scorrere troppo sangue.
La Hannah Arendt che ricuce i rapporti è una donna radicalmente diversa. Come scrive lei stessa in una lettera, dopo aver incontrato Martin, stavolta con la moglie Elfride, di cui possiamo immaginare e non dobbiamo fare neppure un eccessivo sforzo, perché nelle lettere è accennato il disappunto nel sapere quanto sia stata importante per il suo Martin:
Non mi sono mai sentita una donna tedesca, e ho smesso da molto tempo di sentirmi una donna ebrea. Mi sento quello che sono in realtà, una donna che viene da lontano.
Scriverà Heidegger più in là, quasi sfogandosi:
Per quali inferni deve ancora passare l’uomo, prima di riuscire a capire che non è lui a produrre se stesso?
Sanno entrambi che è lungo ogni sentiero che passa per la prossimità, come scrive il maturo professore in una poesia posta in calce ad una lettera alla Arendt.
E in effetti, si coglie appieno questa difficoltà: farsi vicini, almeno nel loro caso, ha avuto il drammatico significato dell’esperienza di una lunga e dolorosa lontananza. Chiaramente il tenore delle lettere, dal 1950 fino al sopraggiungere della morte della Arendt nel 1975, è diverso, così come sono diversi entrambi.
Adesso sono solo due filosofi di chiara fama e due persone che a fatica si stanno riprendendo dalla Storia a scriversi e nello scambio cordiale di pensieri e incoraggiamento reciproco per il proprio lavoro, sembra sopito quel quieto e profondo amarsi giovanile, pur rimasto custodito in qualche anfratto della memoria. Nonostante le parole scritte, il non detto è il protagonista assoluto di questa relazione nella maturità e per certi versi non sembra assurdo ritenere che lo sia stato anche nel primo periodo. Il non detto è il linguaggio del pudore (e della poesia, scrive Hannah Arendt in una lettera del 1967 a Martin, riprendendo Klopstock).

Cosa succeda dentro questo silenzio simbolico, regno assoluto dell’inesprimibile dove la parola debole e parziale non è ammessa a cittadinanza e il rischio di non riconoscersi resta alto, è difficile, appunto, dirlo.


*Nel 1924, in una giornata d’autunno, la giovane studentessa Hannah e il professor Heidegger si conoscono a Marburg. Hannah ha 19 anni. Martin 35, una moglie e due figli.

lunedì 21 ottobre 2019

Tommaso in Breve



Tommaso riprende e reinterpreta il pensiero aristotelico alla luce dei valori cristiani. In particolare, Tommaso, si sofferma sulla traduzione della "Politica" di Aristotele. Nell'introduzione a tale opera, l'autore guarda alla politica come ad una scienza autonoma, nè speculativa nè pratica, ma pragmatica, ispirante l'agire dell'uomo. La politica, per Tommaso, come per Aristotele, era da considerarsi una scienza architettonica, che dovesse presiedere dalla gestione di tutte le altre discipline.
La sua opera maggiore è la "Summa Teologica", divisa in 3 parti autonome:
1. Nella prima parte si parla della creazione della natura e dell'uomo;
2. Nella seconda parte si parla all'inizio degli atti dell'uomo, della virtù e del peccato, e poi di vizi e virtù;
3. Nella terza parte, incompleta, si parla degli interventi sovrannaturali di Dio nell'ambito della creazione.
L'opera vuole fornire, come detto, un'interpretazione del pensiero aristotelico in chiave cristiana, al fine di fondare non solo una nuova teologia, ma anche una nuova filosofia.
Secondo alcuni nella Summa si potrebbe rinvenire uno schema neoplatonico di "exitus", uscita da Dio, e di "reditus", ritorno presso di lui. Questi due momenti si snodano nella Legge. Per Tommaso, la Legge è: "un ordinamento della ragione, in vista del bene comune, promulgata da colui al quale spetta il governo della comunità". Se la legge deve orientare, l'atteggiamento individuale verso il bene comune, questa dovrebbe essere decisa dalla comunità nella sua interezza, o comunque da un rappresentante legitimo della comunità stessa. La legge positiva ha, comunque, come presupposto, la legge naturale, che governa l'universo nella creazione.
Pertanto, a sovraintendere il diritto positivo sono la Legge Eterna (ovvero la volontà di Dio), la Legge Divina (che si manifesta con la rivelazione) e la Legge Naturale (che si manifesta nell'inclinazione dell'uomo alle finalità razionali). La Legge umana, che deriva comunque dalla Legge naturale, si divide in diritto delle genti e diritto civile. Il diritto delle genti riguarda la convivenza tra gli uomini, in generale, ed è una derivazione logica della legge naturale, mentre, il diritto civile, tiene conto delle specifiche esigenze dei singoli Stati. A stabilire il rapporto tra legge umana e legge divina sono il "modum conclusionis" ed il "modum determinationis".
Per quanto riguarda l'origine del potere, Tommaso precisa l'affermazione, di Paolo, per la quale, lo stesso, derivi da Dio: il potere è "a iure umani" leggittimato direttamente dal popolo, ed indirettamente da Dio.
Il potere dovrebbe essere indirizzato al conseguimento della giustizia in senso aristotelico. Esso è disposto da autorità spirituali e terrene allo stesso tempo. Tommaso, tuttavia, riconosce una superiorità del potere spirituale rispetto a quello politico.
Nel suo "de regimine principium" o "de regno" egli esprime quale sia la forma di governo da lui preferita, ovvero la monarchia. Tale opera sarebbe stata completata, dopo la morte di Tommaso, da un suo allievo. Secondo Tommaso, se il principe è virtuoso, lo è anche il popolo, e si possono perseguire l'ordine ed il bene comune. Il compito del principe è questo, di condurre la comunità verso il bene, di essere prudente e di avere buone competenze politiche (architettoniche), per il coordinamento di tutte le attività di governo. Qui è la grande innovazione portata da Tommaso, rispetto ad Aristotele, l'affiancamento, alla virtù, di una necessaria competenza. Dunque, sebbene la forma di governo preferita da Tommaso fosse la monarchia, in realtà la sua visione era orientata verso una costituzione mista sul modello romano.
TOMMASO D’AQUINO, LE CINQUE VIE, dalla “Summa Teologica”.
Dopo essersi posto il problema se Dio esiste, Tommaso passa ad indicare le sue famose “cinque vie” per arrivare a Dio attraverso la natura.
“Sembra che Dio non esista. E infatti:
1. Se di due contrari uno è infinito, l’altro resta completamente distrutto. Ora, nel nome Dio s’intende affermato un bene infinito. Dunque, se Dio esistesse, non dovrebbe esserci più il male. Viceversa, nel mondo c’è il male. Dunque, Dio non esiste.
2. Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si vede perché debba compiersi da cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo, potrebbero essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esistesse: poiché quelli naturali si riportano, come al loro principio, alla natura, quelli volontari, alla ragione o volontà umana. Nessuna necessità, quindi, della esistenza di Dio.
3. In contrario: Nell’Esodo si dice, in persona di Dio: “Io sono Colui che è”.
4. Rispondo: Che Dio esista si può provare per cinque vie.
 [a. La prima via Dal mutamento]
                 La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all’atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all’atto se non mediante un essere che è già in atto. Per es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e cosí lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: cosí ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. Se dunque l’essere che muove è anch’esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e cosí via. Ora, non si può in tal modo procedere all’infinito perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio.
 [b. La seconda via Dalla causalità efficiente]
                 La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di sé medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all’infinito nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa dell’intermedia, e l’intermedia è causa dell’ultima, siano molte le intermedie o una sola; ora, eliminata la causa e tolto anche l’effetto: se dunque nell’ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l’ultima, né l’intermedia. Ma procedere all’infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e cosí non avremo neppure l’effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio.
 [c. La terza via Dalla contingenza]
                 La terza via è presa dal possibile [o contingente] e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose [esistenti in natura sono tali che] possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, e cosí anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in un altro essere oppure no. D’altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, non si può procedere all’infinito, come neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio.
 [d. La quarta via Dai gradi di perfezione]
                 La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuiscono alle diverse cose secondo che si accostano di piú o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; cosí piú caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo Aristotele. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio.
 [e. La quinta via Dal finalismo]
                 La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come apparisce dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia dall’arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest’essere chiamiamo Dio”. 

Agostino in Breve


L'uomo desidera conoscersi e amarsi. Più si conosce, più capisce di non poter conoscere tutto. Più si ama, più capisce che non gli basta amare sé stesso. L'uomo, dunque, si trova ad essere tanto soggetto quanto oggetto di conoscenza e amore. In questa prospettiva, una duplicazione ontologica del genere rinvia ad un principio unificatore dell'uomo, dell'essere, di Dio.
L'uomo dunque non è solo un individuo, ma anche la determinazione di un principio. Egli vuole colmare la distanza che lo separa dallo stesso, per questo si trova a far parte di una civiltà universale. Gli uomini, dunque, stanno insieme perché naturalmente legati da principi metafisici. Agostino ritiene che la verità non possa essere completamente conoscibile, ma possa esserlo solo parzialmente. La ricerca della verità, dunque, avviene mediante sapientia e scientia, mediante progressus e regressus. La conoscenza non è mai definitiva, essa è unicamente il punto di partenza per una nuova ricerca. Allo stesso modo che la conoscenza funzionano il desiderio d'amore ma anche la società naturale stessa.
Tale società, aspaziale e atemporale, e universale, originale e composta da uomini perennemente in dialogo, tra loro e con il principio. Si tratta di una società infinita. Finite, al contrario, sono le società particolari in cui gli uomini vivono sulla Terra.
Le civitas terrene sono, per Agostino, pluralità di uomini che condividono il medesimo fine, esse sono la moltitudine di uomini concordi cui fa riferimento Cicerone. Si tratta dunque di un principio metafisico della socialità. Nel De Civitate Dei Agostino descrive due diverse società che derivano da due diversi tipi di amore, vi è, infatti, un amore di sé che porta al disprezzo di Dio, quello alla base della città terrestre, ma vi è anche un amore per Dio che porta al disprezzo di sé, ed è questo amore che sta alla base della città celeste. Una tendenza, che oramai possiamo considerare erronea, portava ad associare la città terrestre allo stato e la città celeste alla chiesa.
Per Agostino l'assolutizzazione dell'amore per sé stessi va contro la natura dell'uomo, come contro tale natura va il disprezzo di sé stessi. Da qui la concezione "mistica" delle due città: ogni civiltà è un polo dialettico ove trovano il proprio sviluppo tutte le società esistite nell'arco della storia. Secondo Agostino, la città celeste incarna il regno di Dio (quello della Bibbia), destinato a realizzarsi alla fine dei tempi.
Nella disputatio contra Fortunatum manichaeum, Agostino ci parla della legge come non unicamente politica, è contingente ma eterna. Essa è la legge, o volontà, divina, che vieta di distruggere l'ordine naturale, imponendo di preservarlo. Come detto, essa ha durata illimitata, e prescinde dalla promulgazione da parte di esseri o istituzioni umane. Sia la ragione, sia la volontà, sono frutti della legge.
Anche Dio è partecipe a tale legge, e rispetta sé stesso. Dio orienta tutta la natura al bene. Ma, affinché la vita possa essere governata e l'uomo possa essere limitato nel peccato, è necessaria la soggezione ad un potere politico.



sabato 5 ottobre 2019

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venerdì 3 maggio 2019

Letteratura italiana - Giovanni Pascoli


Pascoli è un simbolista. Per lui, particolarmente importante e la natura, fonte di ogni verità. Pascoli guarda al di là della realtà guarda all'essenza delle cose. Ciò è possibile guardando al mondo con gli occhi umili è lo sguardo incantato di un fanciullino.

Pascoli nacque a san Mauro di Romagna in provincia di Forlì, nel 1855. Era il quarto di dieci figli. Crebbe in campagna in una famiglia agiata. A otto anni entrò in collegio a Urbino. Si trovava lì quando il padre venne assassinato.
Questo omicidio, mai risolto, portò alla distruzione del nido familiare. La madre morì l’anno dopo, ed il fratello maggiore si trasferì a Rimini con il resto della famiglia. Pascoli terminò il liceo, ed ottenne una borsa di studio per la facoltà di lettere a Bologna. Durante i propri studi Universitari divenne socialista: durante una manifestazione fu riconosciuto e perse la borsa di studio, quindi dovette abbandonare l’Università. Divenne poi anarchico e venne arrestato.
Una volta scarcerato lascio la politica e, nel 1882, si laureo. Divenne insegnante di Greco e Latino alle superiori per poi passare alla carriera accademica. Nel 1905 fu chiamato dall'Università di Bologna per succedere a Giosuè Carducci, nella cattedra di letteratura italiana.
La sua ossessione per la ricostruzione del nido familiare lo portò a riunirsi con le sorelle, rinunciando al matrimonio: per questo ci rimase molto male quando la sorella Ida decise di sposarsi. Trovò il suo nido definitivo a Castel-Vecchio con l’altra sorella. Morì di cancro nel 1912.

Temi costanti dell’opera di Pascoli furono il lutto (a causa della morte del padre) ed il nido (luogo di riparo dai problemi del mondo), grazie alla protezione della famiglia. Nel nido avviene una regressione, che si sviluppo in tre direzioni:
1. Anagrafica, Pascoli elogia la fanciullezza (innocenza, fantasia e spontaneità del bambino, contro calcolo, egoismo e insensibilità degli adulti);
2. Sociale, la campagna, regolata dalle leggi della natura, contro la modernità della città regolata dalle leggi dello stato.
3. Storica culturale, il mondo classico (Greco-Latino) e la cultura classica contro il mondo contemporaneo e alla cultura borghese.

Le opere 
Il fanciullino
Pascoli scriveva più opere contemporaneamente, per questo nello stesso lavoro si ritrovano stili diversi. Il massimo apice della sua poetica lo esprime nel “fanciullino”. Secondo lui la conoscenza, deve essere basata come per i bambini, sulla spontaneità e sull’intuizione. Anche quando si cresce e si diventa adulti un po' del fanciullino rimane dentro di noi. Egli rifiuta la ragione e la scienza, in favore delle emozioni e della fantasia.
Il poeta non si limita ad analizzare gli oggetti in quanto tali, ma in quanto simboli. Per questo lui è un simbolista. Come Adamo, i bambini, danno un nome a ciò che vedono e sentono: un nome non solo per l’oggetto, ma per tutto ciò che esso rappresenta. In quest’ottica, Pascoli, ricorre spesso ad analogie e alla sineddoche. L’analogia consiste nel fare riferimento agli aspetti comuni delle cose, la sineddoche e una parola che rappresenta qualcosa di diverso dal suo significato (per esempio, la parte per il tutto, il contenitore per il contenuto, il materiale per l’oggetto).

Le Myricae (Miriche)
L'opera fu scritta in più di vent’anni. Il titolo è una parola Latina, presa da Virgilio, che significa tamerici, una pianta umile, che si usava per accendere il fuoco o per fare le scope.
I temi dell’opera sono il lutto e il nido, di cui si è già parlato. nell’opera sperimenta metriche diverse e fa molto ricorso al simbolismo (soprattutto all'onomatopea). 
Metrica è il numero di sillabe presenti in un verso.
Onomatopea è una parola che rappresenta in suono (es. bang!, drin drin).

I canti di Castelvecchio
Non è un’opera unica, ma una raccolta di canti pubblicati su giornali e riviste. Ci sono molti richiami alle “Myricae”. Anche qui si ispira a Virgilio.
Centrale è ancora il tema del lutto: la poesia è considerata come risarcimento per il dolore dovuto ai lutti subiti. La metrica diventa più complessa ed emergono degli elementi folcloristici.
                   
                                                                                                           

lunedì 1 aprile 2019

Inglese - Vocaboli

Ecco a voi alcuni termini
molto comuni e frequenti 
in lingua inglese.

Per conoscerne altri, 
e per migliorare il tuo Inglese, 
contattaci su questo blog, 
o sulla nostra Pagina Facebook.













mercoledì 27 marzo 2019

Inglese - Errori Comuni

Qualche dritta su alcuni errori 
molto comuni e frequenti 
in lingua inglese.

Per conoscerne altri, 
e per migliorare il tuo Inglese, 
contattaci su questo blog, 
o sulla nostra Pagina Facebook.















sabato 23 marzo 2019

Informatica - Comandi Rapidi per Excell

Qualche utilissimo consiglio sui comandi rapidi, per i nostri studenti che usano Excell.


Per altri strumenti che possono facilitare lo studio, seguiteci sulla nostra pagina facebook A Lezione con Marco



















venerdì 22 marzo 2019

Greco - La Neosofistica

La neosofistica si sviluppa nel II sec. d.C.; L'insegnamento della retorica e della filosofia erano alla base della formazione dei giovani che intendevano intraprendere la carriera politica. Alcuni di questi però non intraprendevano l'attività politica; i migliori studenti di retorica facevano dell'eloquenza una fonte di celebrità e guadagno. Si spostavano, infatti, nelle varie città esibendosi in pubbliche declamazioni nei vari luoghi di raduno. 
Alcuni di questi "maestri di eloquenza" pronunciavano discorsi già preparati in precedenza, mentre altri li improvvisavano al momento. Il loro scopo era quello di impressionare il pubblico con le proprie capacità nell'ambito dell'eloquenza. 

Nacque così un vero e proprio movimento culturale che venne chiamato neosofistica e la cui definizione viene data dal retore Filostrato che, in un suo opuscolo, aveva suddiviso l'eloquenza greca in 3 periodi:
1) l'antica sofistica ateniese del V sec. a.C.;

2) i 10 oratori attici del canone alessandrino (gli oratori più famosi del IV sec. a.C);
3) neosofistica, ovvero l'insieme di questi retori del II sec. d.C che venivano pagati per i loro discorsi.

Questi ultimi miravano a sviluppare l'arte della parola e talvolta coltivavano maggiormente l'aspetto esteriore dell'eloquenza perché volevano suscitare meraviglia in chi ascoltava. L'elemento caratteristico di questo movimento fu lo spostamento dell'eloquenza dalle scuole ai luoghi pubblici.

lunedì 18 marzo 2019

Latino - Classico: Incipit delle Confessiones Augustini



Sei grande, Signore, e degno di somma lode: grande è la tua potenza, e la tua sapienza non ha numero. E l'uomo, minima particella del tuo creato, vuole lodarti: l'uomo, che porta in giro con se la sua natura di morte, che porta in giro con se la prova del suo peccato e la prova che resisti ai superbi (cfr. Adamo ed Eva). Eppure l'uomo, minima particella del tuo creato, vuole lodarti. Tu, tu lo spingi a trovar gioia nelle tue lodi, poiché ci hai fatti per te ed inqiueto è il nostro cuore finché non si acquieta in te.
Dammi, Signore, di conoscere e comprendere se ti si debba prima invocare o lodare, e se ti si debba prima conoscere o invocare. Ma chi ti invoca senza conoscerti? Chi non conosce, infatti, potrebbe invocare uno al posto di un altro. O, al contrario, ti si dovrà invocare per conoscerti? Ma come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? O come credono, se nessuno lo avrà annunciato? Loderanno il signore coloro che lo cercano. Cercandolo infatti lo trovano e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e che ti invochi credendo in te, poiché ci sei stato annunciato. Ti invoca, Signore, la fede che mi hai dato, che mi hai ispirato mediante l'incarnazione del figlio tuo, mediante il ministero del tuo annunciatore.